“A San Giacomo il grano deve essere nato o seminato” . Questo antico adagio popolare ricordava che il 25 luglio era la data ultima entro la quale il grano saraceno doveva già essere posto a dimora. Il saraceno, dialettalmente chiamato furmentun, cresceva bene e dava garanzie di buone rese anche a quote elevate e su terreni impervi, tanto che nel periodo di massima diffusione, nell’800, in Valtellina esistevano campi anche ben oltre i mille metri di altitudine.
Oggi come un tempo la semina avviene a spaglio, cioé si gettano i chicchi a piccole manciate sul terreno, senza seguire un tracciato preciso. Dopo quindici giorni circa le pianticelle in passato venivano sottoposte a sarchiatura; oggi questa operazione viene evitata grazie ad una densità di semina maggiore, accorgimento che consente, vista la rapidità di germinazione del grano saraceno, di coprire rapidamente la superficie del terreno, privando di conseguenza di luce e possibilità di sviluppo la maggior parte delle malerbe. In seguito e fino alla raccolta il grano non richiede lavorazioni ulteriori, ma il clima del mese di agosto e soprattutto di settembre risulta essere cruciale; se, come accade talvolta, l’andamento climatico è particolarmente umido i fiori si “bruciano” e perdono la maggior parte della propria fertilità, rendendo di conseguenza impossibile una loro fecondazione e l’ottenimento perciò del seme. In particolare le cd. cuere, cioè le foschie e nebbioline persistenti, possono nei casi peggiori compromettere tutto il raccolto dell’anno.
La raccolta avviene tra la fine di settembre ed ottobre, a seconda della quota; non si raccoglie mai a piena maturazione per evitare di perdere i chicchi che, se eccessivamente maturi, cadono a terra con estrema facilità. La mietitura è molto laboriosa: quando il grano inizia a diventare seccaginoso, con un piccolo falcetto si tagliano gli steli, si riuniscono in piccoli covoni non legati e si dispongono sul campo; sono questi i cd. caséi che, disposti a file, permangono ancora qualche giorno sul campo per permettere la completa essiccazione della parte aerea della pianta
Inizia quindi la battitura (trebbiatura), che avviene direttamente sul campo oppure sull’aia di casa e può coinvolgere anche una decina di persone. Si stendono sul terreno i tradizionali pelorsc valtellinesi (teli di canapa e lino tessuti al telaio) e vi si stendono le piante ormai seccate; i battitori si dispongono di fronte, a due a due, e con il fièl, un attrezzo per la battitura costituito da due bastoni legati ad un’estremità, iniziano a battere le piante per separare la paglia dai semi.
Alla fine rimangono sul telo i chicchi di grano mescolati agli steli delle piante e per separarli si passano nel racc, un grande setaccio di vimini a maglia quadrata del diametro di circa un metro; le maglie piuttosto larghe consentono di separare sommariamente i rimasugli degli steli dai chicchi.
I semi passano quindi nel mulinél, ventilabro in legno composto da tre/quattro pale in legno, mosse da una manovella, che generano una corrente d’aria. Il passaggio al ventilabro consente di separare la parte volatile di sporco residua e i sassolini più grossi dai chicchi. Il grano saraceno si pone quindi a seccare in sacchi di juta al sole o nello spazzacà, la soffitta ventilata delle vecchie abitazioni, fino alla completa essiccazione.
Il grano saraceno non viene macinato tutto in una volta, ma solo al momento dell’utilizzo. In passato le famiglie contadine lo coltivavano essenzialmente per l’autoconsumo e quando era necessario si portava la granella ad uno dei molti mulini a pietra esistenti in valle; Il mugnaio restituiva un sacco di farina “nera” e un sacco di crusca, el fiurèt del furmentùn, che serviva come cibo per il pollame. Non si pagava mai la macinatura ma il mugnaio conservava per sé una piccola parte del prodotto, la cd. multura. |